Dai capitoli iniziali della Bibbia, dove si “narra” la creazione dell’uomo, è possibile mettere in risalto un elemento che proietta una luce particolare sulla mia e vostra esistenza.
Siamo nati nel limite e cresciamo nel limite. “Non è bene che l’uomo sia solo” e “dell’albero non dovete mangiare” mostrano da un lato un limite intrinseco e dall’altro un limite imposto e scelto. Uno non superabile con le nostre forze, l’altro che si può superare ma questo superamento non porta vita.
Il racconto sembra volerci dire una cosa che invece, nella società odierna, viene visto come impossibile: vivere felici in una condizione di limite, di imperfezione.
In questo si gioca la duplicità della forza del limite.
In un ideale di perfezione che implica la non presenza di limite e mancanze, la forza del limite è quella forza che ci impedisce di camminare, legata a quella frase che ci fa dire “tanto non cambia nulla”.
«L’imperativo categorico «sii perfetto!» genera condizionamenti negativi sul piano dei rapporti. L’esperienza clinica conferma che l’uomo entra in difficoltà con se stesso e con gli altri ogni volta che pretende di adeguarsi all’imperativo di essere perfetto. Per esperienza personale, possiamo constatare che una delle cose più difficili è sopportare i propri errori o tollerare i difetti degli altri. Non siamo capaci di aiutarci generosamente perché le uniche cose che contano in queste circostanze non sono le nostre insufficienze reali, ma l’idea di ciò che dovremmo essere. La forza, e a volte la violenza interiore, esercitata dall’ideale della perfezione non ci aiuta ad accettarci, né ad accettare gli altri in base alla propria realtà.» (Borsato L'etica dell’imperfezione)
Il vangelo ci dice «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Ma potremmo porci una domanda: «Perché Dio non ci ha fatti perfetti?» e ci chiede di fare un cammino per raggiungere questa perfezione che indica la fine di un cammino (perfezione deriva dal latino perfectum che significa compiuto, finito). Avendo questo ideale di imperfezione ci diventa difficile il grande comandamento di Gesù: “Ama Dio e il prossimo tuo come te stesso”. Non amandoci nel nostro essere imperfetti/perfettibili ci diventa impossibile amare Dio (poteva farci meglio) e amare gli altri (perché anche loro sono imperfetti).
Ma c’è un’altra forza che può sorgere dal limite: il cammino verso la perfezione. Una perfezione che non esclude il limite, ma lo accetta e lo integra.
«L’idea di fondo, in questa prospettiva dell’etica dell’imperfezione, è che proprio il voler la perfezione distoglie la persona dal diventare se stessa: si diventa se stessi quando ci si accoglie nella propria realtà segnata dai limiti, dalle imperfezioni, dagli sbagli. Onorare il proprio limite è perdere il senso di onnipotenza e la volontà di potenza: è diventare semplicemente umani. Questo consente vere e profonde relazioni che risvegliano i propri doni e le proprie possibilità. In più, in queste relazioni cammina il senso dell’accoglienza e dell’affetto che rigenerano continuamente il desiderio di non arrendersi mai. [...] Vivere l’imperfezione appare come uno spazio, una possibilità per incontrarsi con sé stessi, come si è, nella propria realtà, per vivere un rapporto sereno al di là di ogni forma di onnipotenza e di perfezionismo deleterio e mortificante; quando si accetta la propria e altrui imperfezione può nascere una profonda e libera relazione all’interno della coppia, della famiglia e della comunità. Amarsi da peccatori dà alle persone la possibilità di mostrare sé stesse come sono, ma infonde anche la voglia di crescere senza dover sottostare ad attese o regole dettate da altri». (Borsato L'etica dell’imperfezione)
In questo senso si potrebbe sostituire alla logica dell’armonica perfezione dell’uomo, centro dell’universo e simbolo dell’umanesimo rinascimentale, l’idea più umile di un uomo vulnerabile e ferito, eppure capace di rinascere e di vivere entro e oltre i propri limiti? Di prendersi cura di sé stessi, proprio grazie al riconoscimento di quella radice di fragilità e precarietà che condivide con ogni creatura e che è cifra dell’essere umani? Potrebbe il margine rappresentare, invece che la situazione di eccezione o di rischio, proprio la cifra di un’esistenza che costantemente sposta e rinnova instancabilmente le proprie frontiere, per sporgersi verso l’altro (e l’Altro)?
Proprio in questa logica siamo nati come movimento:
Coscienti della loro debolezza e dei limiti delle loro forze, se non della loro buona volontà, sperimentando ogni giorno come è difficile vivere da cristiani in un mondo pagano, ed avendo una fede indefettibile nella potenza del reciproco aiuto fraterno, hanno deciso di fare équipe. (Carta delle equipe Notre-Dame)
Vorrei terminare con una presa discienza che mi ha aiutato nel mio essere missionario in Costa d’Avorio e che mi aiuterà ora che parto per l’Angola, ma che credo possa essere “adattato” anche all’esperienza della coppia.
Quando ho accettato di essere “bianco” ho potuto vivere libero da quel “voler essere come loro” potendo “vivere con loro”.