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LETTERA 221 - DICEMBRE 2022-FEBBRAIO 2023

Editoriale:

Ascoltare è diventare profeti

Autore:

Simone e Cinzia Purpura Responsabili Regione Nord Est B

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“Ci sono sguardi che curano e sguardi che crescono il dolore, sguardi che attendono una risposta e sguardi che anticipano una risposta, ancora più pericolosi degli sguardi dell’indifferenza. Quanto tempo dedichiamo ad ascoltare parole e sguardi con cui le parole ci sono dette? Al di là dei percorsi razionali, accanto alle strade della filosofia, non possiamo non considerare che il nostro dire, anche quello ora tra noi, prende delle vie che sono determinate dal tono della voce e dall’interiorità che si manifesta” (Eugenio Borgna).
La scelta di Eugenio Borgna per introdurre questo editoriale è legata, oltre che da un profondo affetto verso la sua persona, alla capacità che ha la sua parola di accogliere l’altro. Il suo linguaggio è sempre stato un invito a far silenzio in se stessi e far spazio alle emozioni. Con tenerezza sottolinea l’importanza dello sguardo nell’ascolto delle parole e di come la scelta delle parole e dei silenzi siano legati alla capacità di guardare negli occhi una persona.
Con una analogia potremmo paragonare lo sguardo alla finestra del corpo, che può illuminare la nostra interiorità mostrandoci l’urgenza non solo di una parola che cura - che potrebbe non riguardarci - ma anche di una cura della parola. La parola con cui noi esterniamo il nostro sentimento e la parola che ci viene detta hanno una importanza enorme.
Ma come possiamo prenderci cura delle parole e dell’ascolto? Prima di ogni cosa non possiamo dimenticare che ogni colloquio, ogni dialogo, ogni ascolto, sopravvivono all’oblio solo se, quando incontriamo un’altra persona, sappiamo dare voce a una visione del mondo che parta dall’interiorità. Se le nostre parole sono aride o scolastiche, incapaci di cogliere la fragilità della persona, non c’è ascolto. Ecco perché la necessità di guardare negli occhi una persona, così come ha fatto Gesù ricorrendo al linguaggio del corpo: “fissò lo sguardo su di lui e lo amò” (Mc 10,21). Gesù spesso usa il linguaggio del corpo: fissa, tocca, si commuove, perché il corpo è la carezza, è la lacrima. La lacrima, in fondo, offusca il nostro vedere, la carezza rompe le solitudini in cui viviamo e in cui siamo imprigionati, ma entrambi raccontano l’interiorità, esprimono la partecipazione vivente che consente di entrare in relazione con l’interiorità dell’altro. Nell’insegnamento evangelico Gesù evidenzia che siamo abituati a fermarci al corpo fisico senza guardare il “corpo vivente” che potrebbe modificare il nostro dire.
Questo lavorio interiore - per riconoscere cosa si nasconda negli sguardi e nei silenzi di una persona - differenzia le persone che hanno attitudini di ascolto “dialogico” da quelle che si affidano al solo ascolto “del linguaggio”, fatto di comprensione di parole a loro volta fatte di “nomi”. I “nomi” ed il linguaggio usato sono importanti, consentono di descrivere i fatti e la realtà osservata, consentono il passaggio dal concreto all’astratto. Da ciò si comprende quanto sia difficile parlare o meglio farsi capire, come siano importanti i “nomi” usati, come questi ci consentano di narrare i fatti nella loro realtà e come il tema del rapporto tra la realtà e il linguaggio sia insidioso. Quante volte lo abbiamo potuto constatare! Quante volte abbiamo preso sonore cantonate per aver frainteso il senso di quanto ci veniva detto?
Gesù stesso ha sentito questo bisogno ed il desiderio di conoscere ciò che gli altri dicevano di lui, ad esempio quando dice: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Mt16,15-20; Mc8,29-30; Lc9,20-21)
Gesù desiderava sapere dalla sua stessa comunità cosa avessero compreso di lui, non perché dubitasse o mancasse di discernimento per comprendersi, ma perché - altro elemento di riflessione - i rapporti umani ci alterano, contribuiscono a creare la nostra identità personale e possono creare distanza dall’altro. Distanza che Gesù colmava con le parabole e le domande che con sapienza aprivano un cammino, davano inizio a un processo, mettevano in discussione certezze e abitudini, invitavano a una fede profonda. Insegnava ai predicatori, che “credono spesso di dover sempre offrire qualcosa all'altro”, ad ascoltare l’altro quando si trovavano con loro.
A proposito della necessità e difficoltà dell’ascolto, già nel 1938 Dietrich Bonhoeffer così scriveva: Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l'amore di Dio incomincia con l'ascoltare la sua Parola, così l'inizio dell'amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo. È per amore che Dio non solo ci dà la sua Parola, ma ci porge pure il suo orecchio. Altrettanto è opera di Dio se siamo capaci di ascoltare il fratello. I cristiani, e specialmente i predicatori, credono spesso di dover sempre “offrire” qualcosa all'altro, quando si trovano con lui; e lo ritengono come loro unico compito. Dimenticano che ascoltare può essere un servizio ben più grande che parlare. Molti uomini cercano un orecchio che sia pronto ad ascoltarli, ma non lo trovano tra i cristiani, perché questi parlano pure lì dove dovrebbero ascoltare… Chi non sa ascoltare a lungo e con pazienza parlerà senza toccare veramente l'altro ed infine non se ne accorgerà nemmeno più. Chi crede che il suo tempo è troppo prezioso per essere perso ad ascoltare il prossimo, non avrà mai veramente tempo per Dio e per il fratello, ma sempre e solo per se stesso, per le sue proprie parole e per i suoi progetti”.
Ma la domanda di Gesù sa essere anche provocatoria perché entra in un dialogo vero con l’uomo e nello stesso tempo, fa entrare l’uomo in se stesso. Diversamente dalla filosofia, dalla semiologia, dalla psicologia e dalle altre scienze connesse al campo del sapere sul linguaggio, Gesù affronta questo “sapere” da un’altra prospettiva parlando, rivolgendosi al cuore dell’uomo. Gesù ci mostra che occorre provocare dei movimenti nel profondo di chi ascolta, movimenti interiori di decentramento e di disponibilità che stanno alla base della dinamica della relazione. La sua domanda chi io sia? va alla radice della vita, è un invito ad esplorare cosa accade di riflesso quando dico “io” all’altro che mi sta di fronte.
Quando dico “io” si aprono due percorsi, il primo potrebbe essere quello di chiudersi in se stessi, nella propria autoreferenzialità, fuggendo dal prossimo. In questo caso si è muti. Ciò accade ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere: “Adamo, dove sei?”. Adamo all’inizio si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita così come si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo.
“Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l'uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino”. (Gen 3,8)
Il secondo percorso potrebbe essere quello esistenzialista, dove si contrappongono la fuga da sé ed il messaggio biblico, accettando la sfida del discernimento e dell’ascolto. In questo caso si è come Adamo che affronta la voce di Dio, riconosce di essere in trappola e confessa: “Mi sono nascosto”.
Qui inizia il cammino dell’uomo. Il ritorno decisivo a se stessi, è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano” (M. Buber).
Un esempio di decentramento della persona, di disponibilità lo vediamo in Gen 3,9-10: “Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto»”. Adamo adesso sposta l’asse di analisi della realtà, accetta quella distanza che si pone tra ciò che è e ciò che pensa o vorrebbe essere. Incontra Dio come “diverso” ed è bene che sia così perché in quanto tale lo scuote, lo rende vulnerabile, riconosce la differenza tra sé e l’altro. Lo accetta, lo rispetta e abbandona l’immagine che se ne era fatto. Questo spostare l’asse di analisi della realtà dalla nostra soggettività è decentrarsi, ossia allontanare da sé la propria voglia di protagonismo, il proprio egocentrismo e narcisismo e fare posto agli altri riconoscendoli come doni, senza pregiudizi. Nel decentrarsi c’è “una morte a se stessi”, che è necessaria per una degna accoglienza dell’altro. C’è un espropriarsi di sé per lasciare che l’altro si senta capito, amato, a casa propria e così possa percepire concretamente di essere amato da Dio.
Al contrario l’incapacità di decentrarsi non consente di prendere le distanze, di distaccarsi dalle immagini ingannevoli del proprio sé, dai sogni e dalle illusioni, dalle attese e dalle pretese narcisistiche ed egocentriche.
Il narcisismo e l’egoismo sono ferite che lacerano la nostra anima, ma possono tramutarsi in tramiti che fanno bene se divengono interstizi, intermittenze fra cosa e cosa, fenditure di ascolto così come avviene tra silenzio e parola. Il metodo END in questo processo di ri-generazione e di liberazione può essere, nella riunione di équipe, uno strumento di esercizio. Compito dei discepoli non è classificare l’altro, ma ascoltarlo. Profeta è chi ascolta il soffio della primavera dello Spirito, che non sai da dove viene, che non conosce la polvere degli scaffali, la polvere delle frasi già fatte, delle musiche già imparate. Ascoltare la sinfonia del gemito di un bambino, anche questa è profezia. Imparare a sentire e a lasciarsi ferire dal grido dei mietitori defraudati (Gc 5,4) anche questa è profezia. Profezia è ascoltare il mondo e ridargli parola, perché tutto ciò che riguarda l'avventura umana riguarda noi: “sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. (Terenzio)
Il nostro fondatore - p. Henri Caffarel - è stato lui stesso un profeta, perché ha saputo ascoltare ed interpretare “dall’ottica di Dio” il desiderio originario di tre coppie di sposi che volevano progredire nella vita cristiana. Riportiamo su questo argomento un estratto di carattere teologico discusso a Chantilly dal nostro padre fondatore da cui traspare la sua profezia che scaturisce dal carisma fondatore:
“Vi dirò qualcosa che può sembrarvi un invito all'orgoglio, ma non lo è. L'apparizione e lo sviluppo delle END nella Chiesa è stato un grandissimo avvenimento di Chiesa. Prima del 1939 non c'erano nella Chiesa gruppi di coppie; c'erano innumerevoli gruppi di individui, ma gruppi di coppie nessuno; era qualcosa di totalmente insolito. […] Allora ecco che qui scopriamo l'aspetto del carisma fondatore che abbiamo trascurato.
Nella Chiesa in fondo non si vedeva che l'individuo. Si reagiva come se la vetta della creazione, la vetta suprema, la perfezione della grande opera di Dio, la creazione dell'universo, fosse l'individuo. Si dimenticavano completamente quelle righe del Genesi: "Dio creò l'uomo a sua immagine. Ad immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò: Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne...". La punta della piramide non è l'individuo, ma la coppia. Direi che il Movimento dovrebbe costringere la Chiesa a modificare la sua antropologia, la sua concezione delle cose. San Giovanni Crisostomo, Padre della Chiesa, che non era assistente END, ha scritto questa frase abbastanza forte: "Chi non è sposato non è uno, è la metà di uno". E ciò porta molto lontano. Uomo e donna possiedono la stessa natura umana, dunque sono uguali; uomo e donna possiedono la stessa natura umana, ma con modalità differenti, dunque sono complementari, e i due complementari, quando si uniscono, formano quell'entità che è la coppia”
(Dalla Conferenza del fondatore delle END p. Henri Caffarel - La missione delle END – Chantilly 3 maggio 1987).
Concludiamo questo editoriale con Qoelet 1,8:
“Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo”, ma possono diventare profetiche seprofeta significa conoscere il senso, interpretare l’accaduto dall’ottica di Dio.” (Romano Guardini)